Corno Grande - Vetta Orientale tra ferrata Ricci e la 'normale'


I profili del Corvo e dell’Intermesoli, ormai solo contorni senza dettagli, appiattiti dalla luce umida e pesante del pomeriggio inoltrato e forse dalle birre che avevano ridato vigore alla stanchezza; dominavano il piazzale e le nostre fantasie già proiettate alle escursioni future. E si che eravamo appena scesi dalla seconda vetta degli Appennini, vivendo forse la più classica via ferrata del gruppo centrale del Gran Sasso. L’uomo, si sa, soprattutto quando è in gruppo, dimentica presto e guarda avanti, soprattutto quando nel gruppo c’è uno che ha il vizio di guardare ad ovest e che va sognando da tempo quelle due montagne. Insomma avevamo appena vissuto un’adrenalinica giornata appesi sulla fune della Ricci che già si stavano ponendo le basi delle avventure prossime a venire. Ma andiamo per ordine; si deve la progettazione di questa giornata a Paolo, ancora nome senza volto tra gli “aria sottile”, assiduo frequentatore del forum; voleva aggregarsi al gruppo, aveva voglia di percorrere una ferrata, la Ricci sarebbe stato il massimo, e butto là, la secca proposta. Fu come infilare un fiammifero in un pagliaio; le adesioni fioccarono nel tempo di un respiro. Anche la data venne decisa, l’ultimo sabato di agosto, come a purificare e sciacquare via la salsedine delle inevitabili parentesi balneari. Poi si sa le cose cambiano in corso d’opera, chi doveva venire non viene più, Luca e, mannaggia, proprio Paolo, chi nemmeno si era mai affacciato alla nostra realtà lo fa proprio perché allettato dall’iniziativa, Augusto e Roberto, chi tira dentro gli amici come Trechiodi col mitico Pino, chi si conferma come Giorgio con lo scudiero-figlio Simone e Tommaso l’abruzzese che guarda ad ovest più che mai orgoglioso della sua terra. Alla fine una folta e vivace brigata insomma. Le aspettative aumentano di giorno in giorno a giudicare dagli interventi che sul forum si vanno intensificando di frequenza e di proclami. Gli ultimi giorni sembrano non passare mai e forse è proprio l’ultima notte, quella dell’attesa, che il tempo si pianta. Aspettiamo tutti davvero molto da questa giornata. La sveglia suona un po’ per tutti intorno alle quattro meno un quarto. La solita ora antelucana, le strade di Roma sono dominate dai nottambuli delle discoteche che tornano a casa mentre noi convergiamo sull’Aquila dove ci attende Giorgio. Da Roma e da Latina, i più, Tommaso, proveniente da Vasto ci attenderà direttamente a Prati di Tivo, ci muoviamo con una sincronia tale come se fossimo coordinati da un’unica mente. Nessuno aspetta nessuno per più di pochi minuti, il desiderio di vivere una bella giornata è palpabile in tutti. Giusto il tempo di prepararci e la funivia apre i cancelli, la solita fila di gente per salire ma in pochi minuti siamo su, già a 2000 metri. Il Corno Piccolo ci domina fin dal parcheggio, ma mano che saliamo di quota la nostra vetta, le imponenti pareti intorno al Calderone, si manifestano in tutta la loro potenza emozionale. La sensazione che ho avuto è che l’euforia dominante si andasse spegnendo con i metri di altezza che la funivia ci faceva rubare velocemente; dalle confessioni raccolte dopo, quando la felicità e l’entusiasmo della vetta conquistata ha abbattuto tutte le remore che nascondevano le ansie di ognuno, ho capito che forse tutti si stavamo ponendo la stessa domanda: ma dove mi arrampicherò in quel mare di roccia verticale? Non era timore, si sapeva che la Ricci era una ferrata molto frequentata, era rispetto verso una prima che doveva essere affrontata passo dopo passo, esposizione e vertigine una dopo l’altra. Solo Pino conosceva bene il percorso e non a caso era il più leggero di tutti , non a caso Pino, grandioso vagabondo degli Appennini e non solo. Il sentiero che si snoda verso le bandiere che sventolano al Rifugio Franchetti diventa ben presto una lenta processione del popolo della montagna. In fila silenziosi li guardavo salire, lo sguardo rivolto verso quelle creste lassù; ero certo che tutti fossero già con i pensieri dentro ed in mezzo a quelle rocce, nel bel mezzo dei loro passaggi temuti e desiderati insieme. Ci è voluto poco a far sfilacciare la cordata; i più veloci erano già lontani, alle prese con i primi tornanti e le prime asperità, meno di un’ora e si era già al rifugio. Sostiamo poco, il tempo di qualche biscotto, di un sorso d’acqua, di indossare l’imbrago di sicurezza; filiamo via. Il sentiero è evidente, traversa dal Franchetti, senza dislivelli il largo ghiaione che scende dalle sponde del Calderone, converge verso quel piano inclinato, quella sorta di scivolo naturale obliquo che incide il fianco della montagna. Ora è evidente il passaggio, finalmente non contano più i video scaricati dal Web, i racconti fotografici di chi ci è già stato, ora siamo lì e tocca noi. Sale veloce, è tutta lì davanti la ferrata, il primo tratto fino alla prima spalla sotto l’anticima, costantemente inclinata su 35-40°, levigata a tratti e a tratti più ripida, all’apparenza. E poi, la verticalità dell’attacco all’anticima, confusa nel controluce della mattina. Tocca noi; su un masso un bollo giallo-rosso, sentiero 3E, alla vetta orientale, c’è scritto, ed un sibillino quanto affascinante “alpinistico”. Sarà mi dico, la fanno tutti e la farò anche io, ormai son qua, mica posso tornare indietro, mi schernivo; scatto foto ad immortalare i miei compagni che si inerpicavano nei primi approcci con la roccia, mi metto in fila e ….. ho smesso di pensare! Il primo “clack” del moschettone sul cavo e tutto è cambiato. Vedevo nei visi dei miei compagni le stesse emozioni che vivevo. Eravamo lì per lei e lei, la montagna, la ferrata, quel cavo e quei primi passi ci restituivano immediatamente tutto il prezzo del biglietto pagato. Davanti, per primo, privo forse di emozioni tanto è avvezzo a queste salite, e a dare la giusta serenità a tutti è filato Pino; per gli altri i primi passi sono stati un po’ goffi, assicurati al cavo di acciaio, prima troppo alto tanto da richiedere subito le necessarie regolazioni dei nostri kit di sicurezza, poi praticamente a terra, abbiamo affrontato i primi ripidi approcci cercando di prendere confidenza col nuovo mondo. C’è voluto poco a dire il vero. Il cavo di acciaio fissato mirabilmente alla parete e teso come una corda di chitarra ci ha dato subito la giusta tranquillità ed il volo è spiccato. Impegnati nelle manovre siamo saliti velocemente, i primi attaccati a Pino come delle furie divoravano la montagna; dietro la goliardia la faceva da padrona. Al termine del primo scivolo, quando la salita appoggia un po’ e diventa sentiero prima di riprendere a salire rapidamente verso la prima spalla siamo già altissimi; il rifugio è ormai basso, piccolo e lontano, i vuoti, pochi passi più in la, si fanno importanti ma ci sentiamo sicuri; pochi passi senza sicurezza ma ben protetti da un sentiero piano a ridosso della montagna e si riprende a salire; il cavo sempre a terra, ben fissato, le rocce sono levigate ma non prive di appigli. E’ bello volare su quel versante, sicuri ed alti sul mondo laggiù; ciò che prima era un grande dubbio, e sembrava una sfida a noi stessi era ora una entusiasmante progressione che lasciava profondi vuoti dietro. Al termine del secondo tratto di ferrata si raggiunge la prima spalla del versante, quota 2550 circa, un tratto privo di protezioni ampio e appoggiato ma infido per il fondo breccioso della roccia. Cenni di sentiero, ma occorreva stare guardinghi, soprattutto quando pochi passi dopo, l’affaccio si faceva stordente. Il sentiero, come il profilo della cresta, vira a sud, verso l’ultimo attacco ancora più verticale di prima, e per confine ha una sottilissima linea dopo la quale c’è letteralmente il vuoto. La verticalità del paretone con la sua lunga ferita dovuta alla frana di qualche anno fa, insieme al vuoto che ti proietta sulla campagna teramana sottostante, sui sinuosi viadotti dell’autostrada duemila metri più in basso, appaiono all’improvviso, sono un cazzotto allo stomaco che provocano attimi di smarrimento, di repulsione, di panico che si trasformano un momento dopo in entusiasmo. Era stato tutto facile, fin troppo facile e dominare da lì il mondo ci faceva sentire euforici, Lo spigolo che si preannunciava pochi metri sopra di noi, l’ultimo attacco ferrato alla montagna, più verticale di prima, più esposto anche, se vogliamo, non ci spaventava più. Pino davanti a trascinare non aveva più bisogno di comunicarci tranquillità, ormai eravamo nel nostro elemento. Credo che in tanti che eravamo, avremo fotografato ogni tratto della salita, segno della sopraggiunta sicurezza; lo spigolo, entusiasmante perché ripido e vario, mai con esposizioni da spaventare, si è fatto aggredire di slancio; solo le foto, dopo, a casa, ci hanno reso il senso di quanto e come fossimo arrampicati su tratti di parete scoscesi; lì, in quei momenti tutto era invece semplice, scontato, vivo, entusiasmante; i commenti ed i visi di tutti esprimevano solo la felicità di esserci in quel posto. In alto intanto si sporgevano spavaldi Tommaso e Pino; erano già sopra, avevano finito “il ferro” , erano già sulla gobba dove la montagna appoggia e diventa sentiero, dove un ometto poco più in la sta a marcare la poco famosa anticima della vetta Orientale. Duemilasettecento metri di altezza, un trono sospeso nel vuoto, appoggiato al paretone che pochi metri più in la ci stava dicendo di che ambiente fosse formata la vera montagna e di quanto, in fin dei conti, noi stessimo solo giocando con la montagna e con noi stessi. Ma a noi andava bene così, la facilità con cui avevamo affrontato quanto prima era una preoccupazione ci faceva sentire bene. La cresta si fa ampissima, si appoggia ed il sentiero si fa agevole, pochi minuti e si affaccia sul Calderone e sull’anfiteatro magnifico formato da tutte le vette del Corno Grande. La quinta si apre ed è spettacolo, il più bello, il più imponente dei nostri Appennini; è un susseguirsi di creste e pinnacoli, l’Orientale, la Centrale, il Torrione, l’Occidentale che scende sulla sella e che continua sul più alpinistico Piccolo, e dietro le linee inconfondibili del Corvo e dell’Intermesoli con alle spalle l’azzurro sfilacciato del lago di Campotosto; sarà il momento più bello dell’intera giornata. Sostiamo per un po’, nessuno ha voglia di lasciare alle spalle quel momento ed è Pino che prende giustamente l’iniziativa. Ha fiutato che non si saremmo mossi e si incammina. Dietro tutti gli altri. L’ultimo tratto è agevole, anche se più ripido del precedente ed è subito vetta, è l’Orientale, la vetta che per un mese ha tenuto impegnata la nostra fantasia. Che dire? Tutto quanto di bello sia possibile dire ed anche di più. Era la mia prima sull’Orientale, finalmente smettevo di pensare con le idee e le immagini altrui, avevo la centrale davanti, sullo sfondo verso Sud la piana di Campo Imperatore con tutte le sue bianche fiumane di sabbia e la dorsale minore fino al Camicia. Era tutto estremamente familiare e tutto così nuovo. Mi prendo anche un bel rimprovero da Trechiodi per aver lasciato a casa la bandiera del nostro gruppo e a nulla serve la giustificazione di aver cambiato zaino. D’altra parte ha ragione, ha sventolato un po’ su tutte le vette degli Appennini e non sventola quassù, sul quasi tetto degli Appennini; forse è un segno? Ma no, forse è più di un segno è un consiglio, una traccia, il preludio al ritorno. Ne sono certo. Dopo pochi minuti ci raggiunge un altro gruppo di quattro, Marina, Elena, Fabio e Alberto, di Ascoli, simpatici e cordiali col quale instauriamo una piacevole amicizia. A proposito, come è facile conoscere le persone in montagna, vero? Un saluto ragazzi e a reincontrarci, magari sulle vostre montagne della Laga o dei Sibillini. Ancora una volta è stato Pino ad accorgersi che il tempo era volato, noi stavamo in uno stato di grazia che non ci avrebbe fatto muovere da lì per chissà quanto tempo; sfilacciati e sotto le proteste di Tommaso che nel frattempo si era appollaiato su tutte le rocce più sporgenti della vetta quasi si sentisse una cornacchia, e che non intendeva togliere le tende, riprendiamo a scendere. Il ritorno ci ha visti impegnati sulla via normale dell’Orientale, una bozza di sentiero tra le rocce disseminate del versante interno, ben contrassegnato da una infinità di bolli segnavia. La discesa è stata veloce e senza difficoltà; solo un chiodo in bella evidenza ed indubbiamente intrigante posto nel bel mezzo della via ci ha fatto deviare e distogliere per un breve tratto dal percorso normale; Alberto ci ha legato una corda e tutti abbiamo “giocato” e siamo scesi lungo il canalino a scimmiottare un qualche passo più alpinistico. Grazie Alberto, è stato davvero un bel diversivo. Mi viene ora un dubbio però: che quel canalino fosse invece il tratto per scendere e che facesse parte effettivamente della “normale”? Anche se poco profondo era un pò complicato e con pochi appigli per essere affrontato senza corda e soprattutto per una via “normale”! Un motivo in più per tornare , mi pare giusto! E comunque un consiglio a chi dovesse affrontarla è quello di avere uno spezzone di corda dietro. Qualche roccia ancora, un sentiero che non è più tale ma che si divide in mille possibilità di discesa e siamo sulla sponda del Calderone. Emozionante, anche se ormai del ghiacciaio non è rimasto che qualche sfrangiato deposito di neve sporca; lo avevo sempre visto dall’alto, da lì, dall’interno della conca assume un senso completamente diverso; finalmente si infrangevano tutte le fantasie, le immagini costruite da lontano o sulle carte, la realtà era assolutamente più bella, dura, vera di tutte le fantasie immaginate. Non rimane che scendere; la giornata volge al termine. I primi non salgono verso il passo del Cannone come suggerirebbe un più agile sentiero, si buttano lungo il ghiaione a puntare direttamente il Franchetti e gli altri dietro. Un “surfare” sulle ghiaie continuo, un passo facevamo noi e due ce ne faceva fare il ghiaione che scivolava a valle sotto il nostro peso. Forse non avremmo dovuto in osservanza della conservazione del territorio, ma ormai eravamo nel bel mezzo di quel mare di sassi, tanto valeva scendere. Un po’ ingenui. Il rifugio è arrivato presto, una breve sosta ed il serpentone di gente che ritornava stava ormai ad indicare che era l’ora di chiudere la giornata. Scendendo l’aria si scaldava, la foschia del pomeriggio cominciava a nascondere le linee delle creste fino a pochi minuti prima familiari e ormai amiche; l’erba prendeva il posto delle rocce, la partenza della funivia si materializzava dopo l’ultima gobba del sentiero. Ormai c’era solo posto per i rimpianti di una giornata volata troppo veloce contrapposti alla felicità di averla vissuta, e per il desiderio di una fresca birra. Ed è stato al bar, con le birre in mano, con le gambe che non si erano ancora rilassate dal tanto camminare, con i profili del Corvo e dell’Intermesoli, ormai solo contorni senza dettagli, appiattiti dalla luce umida e pesante del pomeriggio, che è nata la proposta di rifare ancora la ferrata Ricci, con una variazione questa volta; scaldandosi le gambe avvicinandosi per la Ventricini. Marco, Luca, Oracolo, Elena, Diego, Giorgio, Max,Paolo, Fernando e tutti gli altri amici di Aria Sottile che oggi non sono venuti, siete avvisati, appuntamento a…….. presto!